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Il tango secondo Federico Rodriguez Moreno e Catherine Berbessou

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Intervista a Catherine Berbessou

Nasce in Francia. Ha studiato danza contemporanea a Parigi con Françoise et Dominique Dupuy nel 1982. E’ ballerina e coreografa, ha collaborato con compagnie come L’Esquisse , la Cie Claude Brumachon. Nel 1990 fonda una propria compagnia (Quat’ zarts) e si dedica al tango argentino. Mette in scena spettacoli di successo internazionale legati al mondo del tango, come A fuego lento (1996), Valser (1999) e Fleur de cactus (2002). Ha studiato tango con Pupi Castello, Graziella Gonzales e Gustavo Naveira. Nel 2000 affianca il regista Sébastien Jaudeau nella realizzazione del film Intrusion.

A quando risale la tua passione per la danza?

Avevo circa 18 anni. Ero attratta da tutto ciò che era fisico, che era legato al movimento nello spazio. Ho seguito dei corsi di danza, ma non in modo regolare. Poi ho fatto la formazione alla Scuola di Danza Contemporanea e già al primo anno ho incontrato dei coreografi che volevano che entrassi in una compagnia. Apprendere la danza direttamente lavorando in una compagnia è diverso che farlo a scuola. Le carenze tecniche vengono superate dall’esigenza di fare spettacolo: si è spinti a lavorare al 200%. Apprendere nel momento creativo, nell’idea della creazione è molto più stimolante che farlo in teoria, fuori dal palcoscenico.

Mi sembra tu sia nata come ballerina di danza moderna: quando e perché ti sei avvicinata al tango?

E’ stato un caso, il destino, forse. Niente accade per caso, in realtà. Il tango in Francia si stava diffondendo tra i giovani ballerini di danza contemporanea. Andai ad una milonga. Rimasi affascinata: capivo che si trattava di un ballo basato sull’improvvisazione, ma che c’erano anche un codice e una struttura e non capivo come le due cose potessero andare d’accordo. Conobbi Federico, seguimmo dei corsi. Poi tutto nacque da lì: volevamo studiare i movimenti e le strutture. Era il 1992, eravamo un gruppo, fondammo una compagnia.

Da quale esigenza nasce il passaggio da ballerina a coreografa?

Non è stato un passaggio dalla danza al tango: è stato un incontro. Il tango era un linguaggio a parte. Certo, ero avvantaggiata, perché una ballerina già conosce il suo corpo, ma la tecnica del tango è costituita da un codice a parte, che andava decodificato e fatto proprio. Dovevamo capire per poi poter creare delle coreografie. Come dicevo prima, non distinguo in me la ballerina dalla coreografa: già lavoravo in una Compagnia di Danza Contemporanea, ma mi sentivo attratta dal processo della creazione, dalla possibilità di entrare nell’universo del coreografo. Già come ballerina devi essere al servizio dell’idea che ha il coreografo per poter realizzare la sua creazione. L’improvvisazione è parte del processo creativo: si esplorano nuove possibilità, ci si abbandona alla musica, al movimento. Essere una buona ballerina non vuol dire essere una buona coreografa. E’ mettere in scena un’idea, un lavoro da regista. La ballerina deve possedere una buona tecnica e una buona capacità interpretativa. In più deve avere disciplina, maturità nell’affrontare il lavoro, sensibilità e apertura vero l’universo di chi sta creando.

Cosa mi puoi dire di ciò che ti è rimasto degli spettacoli che hanno avuto un successo internazionale A fuego lento (1996), Valser (1999) e Fleur de cactus(2002)?

Gli spettacoli sono come sospesi in un tempo indefinito, ma sono ancora là. Ora c’è un progetto di riprendere Valser con il balletto dell’Opera di Toulouse nel 2014. Non si tratta di una nuova creazione, ma di un adattamento dello spettacolo alla danza classica. Ogni coreografia è una storia particolare. E’ una storia che può essere anche molto dolorosa, può costringerti alla solitudine, è come una sorta di condensazione della vita in tre mesi di intensa attività dedicata solo alla creazione dello spettacolo. La pressione del tempo entro cui si deve concludere la fase creativa può costituire un vantaggio o uno svantaggio: da qualcosa di difficile, nasce spesso paradossalmente qualcosa di positivo. Il lavoro di coreografa è una continua avventura, è molto entusiasmante.

Hai in mente qualcosa di nuovo?

Ci sono nuove idee che si rincorrono, ma mai la decisione di prendere in mano la situazione e di creare un vero e proprio spettacolo. E’ sempre il tango ad ispirarmi … osservo molto il mondo del tango e mi cresce la voglia di raccontarlo. La danza e la relazione sono due elementi che mi hanno sempre affascinata nel tango. Il tango è vita: uomo e donna, incontro, relazione, ma anche tecnica. Guardi una coppia che balla e leggi le intenzioni, ti scorre davanti una storia. Non è importante solo la tecnica, ma anche l’intenzionalità. Come nella vita, del resto.

Quanto la biografia incide sul tuo rapporto con la danza? L’incontro con Federico ha segnato una tappa importante della tua vita artistica, dal vostro sodalizio sono nati diversi lavori …

Federico ha una formazione pedagogica, io un approccio più creativo. Il nostro incontro è stato un aiuto reciproco: io volevo approfondire il tango e nel lavoro di improvvisazione la creazione è individuale, ma anche collettiva. Non c’è bisogno di spiegare, di usare le parole, l’improvvisazione nasce insieme: nel ballo e nella danza contemporanea. Ci sono ascolto e reattività: tra noi c’era un’intesa tale per cui non dovevamo parlare, mentre con il resto della compagnia sì. Io sono la colonna vertebrale, lo scheletro dello spettacolo, lui il cuore. Siamo molto complementari. Federico per la sua formazione è molto strutturato, ma per inventare qualcosa di nuovo bisogna partire dalla destrutturazione. L’improvvisazione è proprio una spinta ad uscire dalla struttura, soprattutto nel tango, dove abita la libertà del movimento. Ma si può farlo solo uscendo da ciò che già si possiede. Io volevo scoprire il mondo del tango, rompere certe regole, osare, esplorare nuovi territori. Nelle coreografie spesso ripetevamo i movimenti anche dieci volte, ma ogni volta per mostrare un’intenzionalità diversa.

Quando una ballerina deve mettere da parte la carriera e pensare alla famiglia?

E’ molto difficile conciliare carriera e famiglia. Quando Carla era piccola sentivo che mi dovevo dividere tra la carriera e la famiglia, ma ho sempre cercato di non privilegiare la carriera a scapito dell’educazione di Carla, ho sempre cercato un equilibrio. Quando tutti e due partivamo in tournèe era un problema. Bisognerebbe avere due vite per poter conciliare i due aspetti della vita di una persona. Ad un certo punto ho scelto la famiglia: non volevo che mia figlia diventasse grande senza di me e magari un giorno mi dicesse: “Ma tu dov’eri?” Anche ora facciamo sempre attenzione ad organizzare le date degli spettacoli e degli stage in modo da riuscire a mantenere una vita personale ordinata, quanto basta.

Si è conclusa l’esperienza della compagnia di ballo Quat’zarts? Se sì, perché?

Il lavoro con la Compagnia Quat’zarts è stato molto importante per me: sono stati 10 anni molto intensi. Si passava dalla fase creativa a quella della tournée, ci voleva molta energia per allestire gli spettacoli e portarli in scena. Ad un certo punto ho sentito che non avevo più energia sufficiente per poter creare. Credo sia fisiologico, non si può fare tutto bene allo stesso modo per sempre. Bisogna darsi delle priorità. Insegnare il tango è rimasta una priorità.

Da quando tu e Federico avete iniziato ad insegnare il tango? E dove lo fate?

Insegniamo insieme dal 1993 sia in Francia, sia in Italia.

Che cos’è il tango per te? C’è un solo tango?

Il tango è una danza che mette in relazione una persona con tante altre, con la musica, con lo spazio. Si basa sull’improvvisazione, che è infinita. La cosa affascinante è che è un ballo molto umano: riflette gli umori delle persone, della sala. E’ qualcosa di vivo, non è fisso. Non esiste un solo tango: il regno del ballo è il regno della libertà. La ricchezza del tango sta proprio nella diversità degli stili.

Cosa ne pensi dell’accusa che viene spesso mossa al tango, il cliché di essere un ballo machista e maschilista, dove comunque è sempre l’uomo che sceglie e invita la donna? E’ vero? Si può dire che il tango è una metafora della vita, delle relazioni, dell’incontro con l’altro, una forma di linguaggio? Se sì, perché?

Le cose tra uomo e donna nel tango sono cambiate: una volta la donna non sapeva ballare e, dunque, l’uomo la doveva ‘portare’. L’evoluzione della tecnica delle donne ha reso superfluo l’autoritarismo con cui l’uomo guidava un tempo. Si tratta di un gioco con le sue regole: uomo e donna hanno due ruoli diversi. L’uomo propone e la donna segue: è un codice, un linguaggio. Guidare non vuol dire essere ‘machisti’ e seguire non vuol dire essere ‘sottomesse’. Il problema fondamentale, semmai, sta nell’invito: lì c’è un vero disequilibrio tra uomo e donna. Nelle milonghe sono sempre più le donne degli uomini. Per la donna nasce una sorta di malessere perché non è lei a decidere se può godere o meno di un ballo. Per me è più ‘machista’ proporre una tanda rosa che non accettare le regole del tango. Un po’ come la Festa della donna che si festeggia solo una volta all’anno: va bene il valore simbolico, rappresenta il ricordo di tutte le donne che hanno lottato o lottano per essere più autonome in un mondo di uomini, ma se si tratta solo di un giorno è una cosa ridicola. Se una donna non balla durante una serata, difficilmente andrà ad invitare qualcuno nella tanda rosa. A volte manca la semplicità dell’invito: nascono mille pensieri “non sono brava abbastanza”, “sono vecchia”, “sono brutta”, “sono troppo bravi e non posso invitarli”, ecc. C’è qualcosa di reazionario in tutto ciò, dovremmo essere più aperti. Il tango è un po’ però anche metafora della vita: ogni uomo è solo, in fondo. Ci sono momenti in cui ci si sente parte della vita ed altri in cui sembra di stare alla finestra a guardare gli altri che si divertono. E’ doloroso, ma è così, come nella vita. Non ci deve essere una struttura rigida, in questo senso anche l’istituzione di una tanda rosa fissa a serata lo sarebbe, altrimenti si perde la semplicità dell’invito.

Come ti spieghi il successo del tango nel mondo?

C’è molta curiosità attorno al tango oggi. Come ho già detto, è una danza basata sull’improvvisazione e come tale in essa il corpo si muove. E’ nel tango che le persone scoprono di avere un corpo e che attraverso questo possono esprimersi. Nel mondo sedentario di oggi le persone hanno voglia di muoversi e di liberare il corpo dai lacci della vita quotidiana. Questo è il bello del tango: la libertà.


Intervista a Federico Rodriguez Moreno

Nasce nel 1966 a Buenos Aires. Ha studiato e si è specializzato in Educazione Psicomotoria a Buenos Aires. Nel 1991 inizia a insegnare tango ai bambini. L’anno seguente si sposta in Europa e in Francia si unisce alla compagnia di Catherine Berbessou. Insegna tango nelle migliori scuole di Parigi, come lo studio di Peter Goss e Artesonando. Con la Compagnia della Berbessou porta in scena numerosi spettacoli di tango.

Quando hai iniziato a ballare il tango?

A 19 anni. Mia zia era attrice e scenografa e si era interessata al mondo del tango, ma allora era sconveniente che una donna da sola andasse a imparare a ballare il tango. Così io l’ho accompagnata. Prendeva lezioni dal maestro Pupi Castello. Ho passato tre mesi seduto a guardare. Il maestro continuava a chiedermi di provare a ballare, ma io rifiutavo. Poi, un giorno, mi ha detto: “Balla un tango con me. Se ti piace inizi a studiare, se no ti lascio in pace.” Ho accettato. Da allora non ho più smesso. Era stata un’esperienza incredibile; la sensazione che avevo provato era quella di saper ballare senza conoscere la tecnica, la stessa che prova una principiante che balla con un ballerino di livello superiore. Muoversi in sintonia con la musica era una sensazione stupenda.

Eri insegnante di Educazione Fisica a Buenos Aires fino al 1990 come mai hai deciso di partire per la Francia?

In realtà ero partito per la Svizzera (la mia famiglia da parte di madre è svizzera) e dovevo rimanere in Europa tre mesi. Sono rimasto due anni. In Francia mi hanno chiesto di tenere corsi di tango e così ho iniziato a insegnare come professione a Parigi.

Che cosa rappresenta Parigi per gli Argentini?

Io posso dire che cosa rappresenta per me. Parigi e la Francia sono il centro culturale per eccellenza, la culla della civiltà europea. Gli Argentini hanno guardato alla Francia come ad un modello culturale di riferimento. L’idea del viaggio a Parigi ha da sempre fatto parte della formazione di un argentino di buona famiglia. Mentre per la tecnologia gli Stati Uniti sono il modello di riferimento, per la cultura rimane tuttora la Francia.

Da quale esigenza nasce il passaggio da ballerino a maestro di tango?

Ho iniziato ad insegnare a ballare il tango ad amici a Buenos Aires quasi per gioco. Poi in Europa ho continuato: c’era grande interesse. Ero un insegnante di Educazione Fisica, dunque il passaggio è stato molto facile, perché la professione è la stessa: cambia il tipo di movimento che si insegna, ma una riflessione sulla didattica è sempre presente. In Europa si intende l’Educazione Fisica come attività legata solo allo sport, mentre in Argentina la formazione è molto più legata all’idea del movimento come benessere, salute del corpo lungo tutto l’arco della vita. Certo, nel ballo c’è la componente musicale, ma se tu alleni una squadra di basket anche lì ci deve essere un ritmo. La didattica è la stessa, è l’oggetto che è diverso.

Nel 1993 hai inventato un rivoluzionario metodo di didattica del tango attraverso l’uso dei gessi. Ce ne puoi parlare?

Avevo voglia di trovare un metodo per sintetizzare le informazioni. Ho osservato come le persone immagazzinano le informazioni: se vedo una croce verde, penso ad una farmacia, ad una medicina, ecc. L’idea era quella di trovare un disegno, che desse l’idea della direzione della struttura. Le persone imparavano molto più rapidamente con le immagini, capivano quasi intuitivamente la direzione che dovevano prendere. Questo metodo, però, partiva dalla struttura per arrivare alla tecnica. Ora ho abbandonato questa strada: parto dalla tecnica per arrivare alla struttura. Prima insegno le nozioni che mi portano alla tecnica: asse, peso verticale, peso diretto, pivot e poi arrivo al movimento. Con il metodo visivo le persone capivano la struttura, oggi punto molto di più sulla qualità del movimento che forma la struttura del passo di danza. Il metodo visivo ha il pregio di non usare le parole, che spesso sono fuorvianti. Con questa didattica basata sulle nozioni voglio dare più l’idea di una direzione. E’ una continua ricerca, anche nella didattica del tango, come nel ballo.

La collaborazione agli spettacoli di Catherine è stata una tappa importante della tua carriera artistica. State lavorando ad altri spettacoli? Dove indirizzi la tua vena creativa?

In realtà io non ho mai avuto una vena creativa, non ho mai avuto una carriera artistica, non sono mai stato ballerino professionista. E’ stato un incontro casuale: un giorno mi sono ritrovato per caso su un palcoscenico. Conoscevo il tango, ma non conoscevo le regole del mondo dello spettacolo. E’ stato uno sforzo enorme dovermi proiettare in quel mondo: non era la consacrazione, il punto di arrivo di un cammino fatto di fatica e lavoro. Ciò che mi ha aiutato è stato il fatto che Catherine lavorava molto sull’improvvisazione. Io seguivo quello che lei mi domandava improvvisando.

Ma anche ballando sei creativo?

Sì, ma è diverso stare su un palcoscenico, che ballare un tango. Inventare dei passi di fronte a dei professionisti è molto più complesso. E’ molto di più quello che si mette in gioco nella preparazione di uno spettacolo per un pubblico. Il fatto di capire subito la proposta dell’altro è ciò che mi ha permesso di essere utile a questa compagnia. In un’altra non so se avrei fatto lo stesso. Gli spettacoli di Catherine sono sempre tagliati sulle persone. A quegli spettacoli servivo io e non altri. L’individuo rifletteva l’idea che lei aveva in mente. La struttura di pensiero di una persona aiuta moltissimo: analizzo cosa mi dice l’altro e cerco le strade per arrivare dove l’altro mi vuole portare.

Quali sono le tue preferenze nella musica da tango?

Mi piacciono le grandi orchestre che suonano Di Sarli, D’Arienzo, Calò, Biagi, Sassone, De Angelis, D’Agostino, Vargas … un po’ di tutto. Ogni musica porta a ballare in modo diverso. Se durante la serata il dj ha creato una buona atmosfera, riesci a provare piacere anche ballando brani che non ti piacciono.

Tu insegni tango molto anche in Italia. Hai sentito che l’Argentina ha deciso di escludere dalle competizioni internazionali di tango coloro che non sono argentini? Che cosa pensi di questa decisione? Le competizioni sono altro dal gusto del ballo nelle milonghe …

Ah, sì, non lo avevo letto. Penso che ci sia la paura che gli stranieri inizino a ballare il tango bene come gli argentini. Ma così si ottiene una perdita di identità del tango: è un’attività sociale che riflette la società, così rispecchia anche le paure della società. Come nel mondo, anche nel tango c’è tanto integralismo. Ci sono lotte tra stili diversi. E’ una cosa assurda. Tutto ciò si basa sulla paura di perdere qualcosa che ci appartiene. La cosa più bella del tango è proprio la diversità. Se tutti ballassero allo stesso modo, sarebbe noioso, no? L’idea della competizione di tango ha una genesi storica: è nata in Argentina proprio con Pupi Castello. Per due generazioni il tango è stato visto come una danza per vecchi, non si ballava (anche sotto il periodo della dittatura militare era proibito, in quanto attività sociale e, dunque, potenzialmente pericolosa). Si trattava di riempire di nuovo le milonghe, portare le persone ad interessarsi di tango. La gara procedeva per acclamazione: l’applauso dei partecipanti per i ballerini che si esibivano decretava la vittoria. Il trucco, quindi, era portarsi tanti amici. Non vinceva chi ballava bene, ma chi portava più sostenitori. In realtà è molto difficile dare una valutazione del tango argentino. E’ una questione di gusto, è molto soggettivo: ci possono essere ballerini che possiedono una tecnica perfetta, ma sono senza anima o altri con un’ottima musicalità, ma poca pulizia dei movimenti. E’ un po’ quello che hanno fatto gli inglesi con la salsa: per permettere delle competizioni ne hanno snaturato così tanto il senso che valutano più i dettagli del ballo in sé. Se continuiamo in questa idea perdiamo ciò che è il bello del tango e cioè che ognuno lo fa come vuole. Togliamo la personalità nel tango. Non amo le competizioni. In realtà le ragioni che spingono gli organizzatori sono più economiche, che culturali. Non lo fanno per il tango in sé.

Che cos’è il tango per te? C’è un solo tango?

Il tango è un percorso, senza una finalità precisa, è improvvisazione, come la vita, del resto. L’unica finalità che vedo nel tango è perfezionare la qualità del movimento e dell’ascolto. La cosa bella è che si portano nel tango i valori che si hanno nella vita. Il tango, per me, è costantemente in movimento, non è qualcosa di rigido, di codificato, dato una volta per tutte. Viene dall’idea di una relazione con una persona. Nella società la relazione uomo-donna è cambiata molto nel corso degli anni, dunque, anche il mondo del tango è cambiato: negli anni’40 la donna veniva ‘portata’, oggi si parla di un dialogo in cui l’uomo propone e la donna risponde. L’importante è la relazione che si crea tra le due persone. Non c’è un solo tango. Ogni ballerino ha il suo tango: ognuno deve ricercare il proprio tango, non il mio.

Cosa ne pensi dell’accusa che viene spesso mossa al tango, il cliché di essere un ballo machista e maschilista, dove comunque è sempre l’uomo che sceglie e invita la donna? E’ vero? Si può dire che il tango è una metafora della vita, delle relazioni, dell’incontro con l’altro, una forma di linguaggio? Se sì, perché?

Il ballo è ‘maschilista’. Dobbiamo intenderci sulle parole, però: cosa vuol dire ‘maschilista’? Noi vediamo sempre questo termine in maniera negativa, ma può essere anche positivo. La cosa interessante è che ci sono due ruoli differenti, quello dell’uomo e quello della donna, che si vanno a completare. Formano una coppia insieme. L’uomo propone e la donna risponde e rilancia: è un dialogo, se non c’è questa alternanza non c’è dialogo. Noi abbiamo la tendenza a vedere il rapporto tra uomo e donna come un rapporto nel quale si deve raggiungere l’uniformità, la totale parità. Ma nel tango è proprio la differenza tra i ruoli che permette di ballare. Si cerca la complementarietà. E’ una questione di modalità di approccio: se ballo tra amici, in società o con mia moglie sono situazioni diverse. Bisogna intendersi su questo, innanzitutto. Il problema dell’invito è un altro: molte persone tendono a pensare di voler risolvere con il tango problemi che nascono fuori dalla milonga. Ci sono donne che sono disposte a tutto pur di ballare con un bravo ballerino. Passano sopra a tutto, anche agli inviti sgarbati. Poi ogni milonga funziona diversamente. A Buenos Aires esiste il cabezeo. E’ la donna che decide, è lei che accetta o meno se vuole ballare, semplicemente con lo sguardo o un cenno della testa. In Argentina in realtà sono le donne a decidere. In Europa in tango è ancora nuovo e tutti noi abbiamo una certa responsabilità: siamo noi a dover cambiare le regole non scritte. Siamo in una milonga per ballare e, dunque, facciamolo. La responsabilità è di tutti. Bisogna trovare il modo di stare in questa situazione, utilizzare il mezzo nel modo più adeguato, senza portare nel tango ciò che non c’è.

Come ti spieghi il successo del tango nel mondo?

Il tango è un ballo sociale e l’uomo ha bisogno della relazione. Non gli basta comperare e consumare. Ha bisogno di amare ed essere amato, di incontrare l’altro. Il tango offre questa relazione. Questo credo sia il motivo del successo di tanti spettacoli di tango nel mondo. Quello che il pubblico vede nella coppia che balla con armonia e passione è ciò a cui aspira, la meta da raggiungere, ma non vede la strada che ha li portati fino a lì, che è fatta di disciplina e ascolto reciproco.

Grazie!!

laura mautone